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23/24-08-2005 quasi Pizzo Bernina
Dovevamo partire alle ore 22:00 del 22/08/05 ma, a causa di un faro, del furgone da noi noleggiato, che non andava, siamo partiti alle 22:30 (il problema non lo abbiamo risolto comunque).
Arriviamo la mattina a Campo Moro (località di montagna vicino Sondrio) con un tempo che faceva vomitare: faceva freddo, piovigginava, era nuvoloso e per finire tirava vento.

Indossiamo ugualmente gli abiti da alta quota e i Camosci: Vincenzo,Antonio,Massimo F.,Marco ed io insieme agli amici Pierpaolo e Manlio, iniziamo a camminare verso “l’ignoto”.
Attraversiamo la diga sul lago e seguendo una stradina asfaltata raggiungiamo l’inizio del sentiero.

I nostri animi affranti, per le condizioni del tempo, cominciavano timidamente a rallegrarsi perché un pallido sole si affacciava saltuariamente. Man mano che procedevamo per il ripido sentiero i nostri discorsi cominciavano a degenerare su argomenti sempre futili e volgari tant’è vero che i primi camosci facevano la loro comparsa per accoglierci festosamente.
Solo Massimo e Pierpaolo perseveravano a parlare di alpinismo e arrampicata sportiva, tutti argomenti che non riguardavano il nostro gruppo.
Dopo parecchia fatica raggiungiamo il rif. Carate, proseguiamo sotto un bel vento freddo e scorgiamo il rif. Marinelli Bombardieri
. Durante l’avvicinamento a questo, due escursionisti, sulla via della discesa, ci dicono che sono dovuti tornare a valle per via della troppa neve fresca. Cavolo, la notizia ci abbatte, i camosci sono andati via e raggiungiamo a testa bassa il rifugio.

Il vento era aumentato, la nebbia anche per non parlare del freddo.
Abbiamo chiesto alla signora del rifugio se le condizioni della via permettevano la salita al rif. Marco e Rosa. Lei, molto cortesemente, ha telefonato al gestore del rifugio e ci ha comunicato ironicamente che, con un po’ di coraggio, un po’ di forza ed un bel po’ di fortuna, si poteva salire. Il capoccione di Antonio, non volendo fare la figura del terrone spavaldo che dopo torna indietro come un pesciolino, ha voluto proseguire.

Abbiamo raggiunto il fantastico Ghiacciaio dello Scerscen che abbiamo attraversato in piano verso nord.

Tra le nebbie, si intravedeva saltuariamente il rifugio tanto ambito. “Freeeechete, lassù dobbiamo andare?!?!? E quando arriviamo!”

Era situato su di uno sperone roccioso a 3597m.

Dopo aver superato vari crepacci, nascosti dalla neve fresca, abbiamo raggiunto la base del canale di Cresta Guzza.
Non potendo salire, causa neve, dalla via normale, attrezzata con corde fisse, abbiamo risalito il ripido canalone ( circa 45°) faticando non poco.

L’ascesa non è stata molto semplice in quanto le condizioni del manto non erano adatte per essere calpestate: neve alta e fresca.

In testa c’era la cordata formata da Antonio, Manlio e Marco seguita da quella formata da Vincenzo, Massimo, Pierpaolo e me.
La testa e la coda della cordata di punta si avvicendavano al comando lungo la salita che sembrava non avere mai termine ( anche perché non si vedeva neanche l’arrivo per la nebbia).

Dopo ore di cammino fra le glaciali nevi, le fitte nebbie ed i venti siderali della montagna, vediamo davanti a noi SAN GABRIELE ARCANGELO che ci mostra la fine della salita.
Voltiamo verso sinistra e a mezza costa raggiungiamo il Paradiso: il rifugio Marco e Rosa semi sepolto dalla neve.

Ci abbracciamo come se avessimo raggiunto il tetto del mondo (non è stata proprio una semplice passeggiata!). Persino i camosci erano tornati a far sentire i loro CANTI di gioia.
Il gestore del rifugio si è  complimentato con noi per l’impresa e ha detto inoltre che ci ha osservati dall’alto per quasi tutta l’ascesa.
Dopo esserci sistemati nella camerata, siamo scesi in sala per gustare una cena prelibata a base di pasta e carne (per Mister Fara la minestra).

Anche se il tempo andava in miglioramento, non eravamo per niente convinti di tentare la vetta il giorno seguente a causa delle condizioni della neve sopra un passaggio roccioso esposto lungo la via di ascesa.
Stremati dalla fatica siamo andati a dormire con la speranza nel cuore.
La mattina seguente ci svegliamo non troppo presto in quanto il dislivello da superare non è elevato (poco più do 400m), facciamo colazione e dopo esserci preparati, formiamo le cordate e partiamo.

Il tempo era da sogno: C’era il sole non faceva freddo e sembrava che le nuvole del giorno precedente fossero soltanto un brutto ricordo.

Inizialmente si camminava molto bene, la neve era abbastanza dura ed i ramponi facevano buona presa.

Man mano che la pendenza aumentava, la neve si faceva sempre più alta e sempre più soffice. Era neve ventata.
Cavolo, i nostri sogni di gloria andavano scemando passo dopo passo.
Con estrema fatica e vari avvicendamenti in testa, per fare le tracce, siamo arrivati sotto le pareti rocciose che ci avrebbero condotto in cresta.

Erano ricoperte di ghiaccio vetrato ed il passaggio esposto era poco avanti a noi.

A circa poco meno di 200m dalla vetta, il saggio signore di uno sconosciuto paesino in provincia di Chieti si è voltato indietro verso di noi e dopo averci dato un rapido sguardo, ci ha fatto capire gesticolando eloquentemente che eravamo arrivati al capolinea.
Io non ho approvato subito in quanto mi sentivo ancora pieno di energie (grazie al cavolo, sono stato sempre dietro salendo sui gradini formati dai miei compagni).
Vincenzo, per non far trionfare la “dittatura”, ha indetto un “referendum”: vuoi continuare SI o NO?
Risultato: tre no, tre astenuti ed un si (io).
Dopo aver guardato per un’ultima volta il panorama straordinario che si godeva da quell’altezza
(Pizzo Palù, Pizzo Zupò, il Monte Disgrazia ed altre vette), democraticamente e a malincuore torniamo indietro calcando le nostre tracce.

Le condizioni della neve erano peggiorate con l’aumentare della temperatura.

Siamo tornati al Marco e Rosa un po’ delusi ma molto soddisfatti della nostra prestazione. Io ero ancora incavolato e, devo dire la verità, la rabbia mi ha fatto pensare cose cattive (ah! Questi giovani scapestrati!).
Dopo aver fatto spese al rifugio, siamo scesi giù per il canalone sulle tracce del giorno precedente.
La discesa si è dimostrata, dal canto mio, molto più facile della salita a causa della neve che si era consolidata.

Una volta raggiunti la parte pianeggiante del ghiacciaio, ci siamo slegati ed in breve abbiamo raggiunto il rifugio Marinelli Bombardieri dove gli “alcolizzati del gruppo” (tutti tranne io) si sono scolati ettolitri di birra.

Sotto un sole splendente siamo passati per il rifugio Carate e, sempre in discesa per il sentiero del giorno prima, abbiamo raggiunto Campo Moro.
(Il racconto della discesa lo ho accorciato perché mi sono rotto le scatole a scrivere e……anche voi a leggere).

Nel frattempo l’incavolatura mi era passata anche perché a sangue freddo ho capito che era stata la scelta migliore.
Arrivati al furgone gli “alcolizzati” hanno eseguito la solita operazione al rifugio osservando le cime che erano ormai coperte di nuvole.
E’ stata un’esperienza veramente eccezionale vissuta insieme a dei compagni di avventura straordinari; mi sono pentito amaramente di avere pensato, in preda alla collera, non bene delle persone con cui ho condiviso parti della mia vita.

Questa volta, stranamente e fortunatamente, il buon senso ha avuto il sopravvento sulla nostra natura incosciente.
Al Bernina ci penseremo l’anno prossimo!
Complimenti a Pierpaolo che si è trovato ad affrontare la sua prima salita sulle alpi su ghiacciaio; si è comportato in maniera egregia, non ha dato il minimo cenno di fastidio.
A Lanzada (il paesino subito sotto Campo Moro) abbiamo fatto un macello, il giorno dopo non ne parliamo ma, questa è un’altra storia.


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Articolo del 16 Feb 2006 by Alfredo
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